logo-franco-almacolle
twitterlinkedin
LUG 13 2016
Ultimo sulla crudelta’: il Marat – Sade di Weiss
Abbiamo iniziato a riflettere sulla crudeltà con Artaud e a questo autore infine ritorniamo portando alla ribalta il crudele per eccellenza: Sade. Benché l’accezione (principale) sia quella utilizzata negli altri articoli sullo stesso tema, in realtà, per il Marchese (in realtà conte Donatien – Alphonse – François de Sade), il significato del termine può essere esteso fino a sovrapporlo con quello più frequente, ovvero relativo a un’attitudine cattiva, violenta e sanguinaria. Tra Sade e Artaud un parallelismo già da altri segnalato: l’autore de Il teatro e il suo doppio scrisse a Breton della necessità di rivoluzionare l’uomo e il mondo, non solo la società e fu per questo espulso, da Breton appunto, dal movimento surrealista. Sade scrive di una rivoluzione dentro al corpo dell’uomo, Marat, il suo interlocutore (immaginario) nel Marat – Sade non lo ascolterà, come praticamente nessun altro … Cercheremo qui, tra le righe, le tracce di questa rivoluzione del corpo; si tratta di un percorso a ritroso verso l’origine, verso una crudeltà animale che, in quanto tale è del tutto pura. In ogni caso, non un punto di arrivo questo, ma una necessità per poter costruire un futuro possibile per un uomo che non sia la caricatura di se stesso. Dobbiamo partire dall’idea che l’opera di Weiss possa riferirsi, specificamente per le posizioni di Sade, alla visione e alla filosofia di quest’ultimo. Fortunatamente questa verifica è abbastanza semplice. Sade ha lasciato molta letteratura e molti contenuti che permettono pochi dubbi sulla weltanschauung, sulla rappresentazione del personaggio e delle sue idee, definite da Weiss. Di seguito alcuni aforismi del divin marchese. ”Una virtù non è altro che un vizio che s’innalza invece di abbassarsi; e una qualità è un difetto che ha saputo rendersi utile. L’egoismo è la prima legge della natura. Tutti i principi morali universali sono oziose fantasie. La virtù non conduce ad altro che all’inazione più stupida e più monotona, il vizio a tutto ciò che l’uomo può sperare di più delizioso sulla terra. Il mio più grande dolore è che in realtà non esiste un Dio, e quindi mi vedo privato del piacere di insultarlo. Ciò che voi chiamate depravazione non è altro che lo stato naturale dell’uomo.” Ancora più importanti, per tracciare qualche linea attorno alle idee di Sade, sono gli autori che hanno preso spunto da queste ultime. In arte: il surrealismo (André Breton, Guillaume Apollinaire); in filosofia Nietzsche e l’esistenzialismo ateo di Sartre; in psicanalisi Jaques Lacan; in semiologia Roland Barthes; in letteratura Dostoevskij. Alcuni testi, come ad esempio, “Discorso di un cittadino di Parigi al re dei Francesi”, chiariscono ulteriormente il suo pensiero: quello di un illuminista convinto che la lussuria e il libertinaggio conducessero, insieme alla logica, alle radici dell’uomo, alla sua vera natura. Un nobile disposto anche alla democrazia se non pensasse che ogni singolo individuo debba prima trovare se stesso e poi decidere per la comunità. Proviamo a prenderle per vere, allora, le parole che Weiss mette in bocca a Sade e agli altri personaggi dell’opera teatrale. Resteremo attorno al concetto di crudeltà. Possiamo iniziare a cercare ciò che non è crudeltà, da un leader dei nostri tempi, Coulmier, molto molto attento al rispetto formale di ciò, che in un dato momento, è sancito per legge: “Così anche qui dentro vedrete rispettati quei gran decreti che tutti seguitiamo, in cui gli umani diritti proclamiamo.” Siamo all’interno del manicomio di Charenton dove si svolge l’azione e dove Sade effettivamente fu rinchiuso. … Per poi passare a ciò che interessa alla maggioranza (rappresentato da un “pazzo” di Charenton): “ Marat, noi non vogliamo scavarci la fossa, siamo stanchi di sgobbare … Dacci il benessere Marat. Dacci il benessere Marat. Dacci il benessere.” Un cantore prosegue: “La libertà di crepar di fame, sì … E di andare randagi come un cane. La fraternità di marcire tra i pidocchi. L’uguaglianza di vivere da pidocchi. Anche loro sono arrivati per succhiarci il sangue. Ci gettano pezzi di carta che dovrebbero esser denaro. Ma servono soltanto a pulirci il culo. (n.d.r.: forse un commento premonitore inerente al lavoro delle nostre Banche Popolari). Chi domina i mercati? Chi tiene chiusi i granai? Chi ha razziato i tesori dai castelli? Chi detiene i latifondi che avrebbero dovuto essere divisi tra noi?” Non può mancare un passaggio sulla comunicazione, o come si direbbe oggi, sull’uso dei media. Un banditore su Roux, un prete … “Questo prete dal parlar veemente, Jacques Roux è chiamato e adora il presente. Da buon predicatore, molto esperto è nell’arte di cambiare in tavola le carte. Datemi retta, dice, il paradiso è questo e promette alle genti un nuovo ordine onesto. Solo non dice come ci si possa arrivare. Parlare è facile, più difficile il fare.” Ed ecco Roux: “Noi esigiamo che i granai vengano spalancati per lenire la miseria. Noi esigiamo che tutte le officine e le fabbriche entrino in nostro possesso. Noi esigiamo che le chiese vengano trasformate in scuole, così che finalmente risuonino di parole utili. Noi esigiamo un immediato sforzo comune per porre fine alla guerra, a questa guerra maledetta che serve da schermo al gioco al rialzo dei prezzi, che risveglia la cupidigia di conquiste. Noi esigiamo che coloro che hanno scatenato la guerra ne sopportino tutte le immediate conseguenze. Una volta per tutte, il pensiero delle grandi guerre e di un esercito glorioso dev’essere estinto. La gloria non sta da nessuna delle due parti, signori.” Vediamo qui un’umanità che non ha un ruolo, che ha desideri, anche molto semplici, e che tuttavia ha una scarsissima consapevolezza di sé, ad ogni livello. Comunque, direi che non manca proprio nessuno. E veniamo allora a Sade che dopo aver descritto le torture (terribili!) subite da Damiens, l’attentatore alla vita di Luigi XV, cerca di definire la sua posizione sugli individui e, in un certo senso, sul corpo sociale. Prima di partire, però, un momento di contatto con me stesso: a teatro, avevo sedici anni, quando vidi il Marat – Sade di Weiss, dovetti uscire per evitare i conati, proprio a questo punto dell’opera (le torture di Damiens). Alla fine della proiezione de Il pianista di Roman Polansky, fui letteralmente portato fuori a braccia dalla sala. Non posso vedere film su soprusi, violenze o discriminazioni razziali o sessuali e anche su testi scritti comincio ad avere qualche difficoltà (ad esempio per Il sogno del Celta di Mario Vargas Llosa). Credo che questo, specificamente, faccia di me, oggi, un intellettuale. Torniamo a Sade: “Questa fu una festa di popolo con cui le nostre feste attuali non reggono il confronto. La nostra inquisizione ha già finito di divertirci. Ai nostri delitti manca il fuoco perché appartengono ormai ai fatti d’ogni giorno. Giudichiamo senza passione. Non ci attende più una morte bella e individuale. Soltanto una morte anonima e svalutata. Ormai siamo pronti per mandare a morire popoli interi e con fredda determinazione giungere finalmente ad annientare tutto ciò che è vivo.” Faccio moltissima fatica ad aggiungere altro data l’immensa attualità di questo brano. Ancora: “Dovremmo saper distinguere il vero dal falso per poter credere. Dovremmo conoscere noi stessi. Io non mi conosco. Quando credo di aver scoperto qualcosa, la metto in dubbio … e la nego un istante dopo. Qualunque cosa facciamo è solo una larva di quello che vorremmo fare. E mai si scoprono verità diverse dalle verità mutevoli delle proprie esperienze. Io non so se sono il boia o la vittima. … Sono capace di tutto e tutto mi riempie di spavento. E così vedo anche come altri, all’improvviso, si trasformino in belve e si lascino trascinare ad atti imprevedibili. Belve folli, Marat. Siamo belve folli.” La replica di Marat in questo caso sembra seguire gli argomenti di Sade anche se sfocia in soluzioni differenti: “Falso Sade, falso. Con l’immaginazione non si abbattono muri. Gli ordinamenti non si sovvertono con la penna. Per quanto ci si affanni, il nuovo nasce soltanto tra goffi e ripetuti tentativi. Siamo così infetti dai modi di pensare tramandati da generazione in generazione che anche i migliori di noi ancora non sanno come cavarsela. Abbiamo inventato la rivoluzione ma non sappiamo ancora come governarla. Alla Convenzione siedono uomini attaccati ai brandelli del passato. Uomini che vogliono sommare ai diritti dell’uomo il sacro diritto all’arricchimento in un felice, vicendevole latrocinio. La rivoluzione è già vinta, dicono. E invece siamo più che mai lontani dal nostro scopo. Questa la conclusione di Sade, nell’opera, conclusione che mi rappresenta perfettamente. Per questo non aggiungerò altro in seguito. “Ho abbandonato da tempo questa specie di eroismo. Io me ne infischio di questa nazione come me ne infischio di tutte le altre. Me ne infischio di questi movimenti di popolo che girano in tondo mordendosi la coda. Me ne infischio di tutte le buone intenzioni che si disperdono in vicoli ciechi. Me ne infischio di tutti i sacrifici che si fanno per questa o quella causa. Io credo solamente in me stesso. … Le manipolazioni, gli abusi, la violenza, le umiliazioni alle quali mi sono fatto sottoporre mi hanno persuaso a liberarmi, a fuggire il corso delle idee comuni, ad elevarmi in uomo. Ora vedo Marat dove conduce questa rivoluzione. Ad un disfarsi dell’individuo, ad un lento dissolversi nell’uguaglianza, ad uno spegnersi delle facoltà di giudizio, ad un rinnegamento di se stessi, ad una debolezza mortale in uno stato la cui struttura è infinitamente lontana da quella di ogni individuo e non è più attaccabile. Io abbandono, non appartengo più a nessuno. Se sono condannato a morire voglio strappare alla morte quello che posso soltanto con le mie forze. Sarò uno spettatore che non interviene, osserverò in silenzio. E quando scomparirò, vorrei cancellare dietro di me tutte le mie tracce. Accordo a Marat tuttavia l’aver sostenuto, nell’opera, ma forse nella realtà, una tesi che è un auspicio, anche mio. “I ricchi che parlano dello stato ideale … Come se i ricchi fossero mai stati disposti a cedere le loro ricchezze spontaneamente. Quando la pressione degli eventi li costringe a concedere un po’ qua un po’ là, lo fanno solamente perché sanno che in qualche modo c’è da trarne un utile. Si dice adesso che presto gli operai saranno pagati meglio. Presto … Non prima di aver rimpinguato le tasche degli imprenditori, ovviamente. Non illudetevi che si possa venirne a capo senza violenza. Non lasciatevi ingannare se la nostra rivoluzione è stata soffocata e se vi dicono che oggi le condizioni sono migliori. Anche se adesso la miseria non si mostra più agli occhi di tutti perché l’hanno imbiancata. E se guadagnate soldi, e se potete anche concedervi qualche coserella tra quelle che le industrie vogliono appiopparvi e vi sembra che già il benessere bussi al vostro uscio. Si tratta sempre e ancora di una trovata di quelli che hanno sempre e ancora molto più di voi. Non date retta a chi vi batte amichevolmente sulla spalla e vi racconta che non è più il caso di parlar di differenze e non esiste più motivo di litigare. Guardatevene … Perché se lo esige il loro comodo vi manderanno in guerra a difendere i loro tesori e vi massacreranno in massa, nel nome dello sviluppo e del benessere di cui ora vi illudete di godere.” Bene, a questo punto, sulla crudeltà c’è poco da dire, ancora. Si apre una querelle sul ruolo dell’intellettuale, sul ritiro dei pochissimi rimasti dalla vita politica e sociale (e quindi sull’impoverimento della loro vis e sulla loro perdita di contatto con la realtà). Soprattutto sull’evidenza che, non avendo niente con cui paragonarsi, non avendo niente da superare, i giovani producono una / la loro cultura da zero; cultura che per questo è, incolpevolmente, molto molto povera. Grazie Marchese, grazie Peter Weiss! Anche se non so più perché ho scritto questo articolo e perché sono arrabbiato … Ritorno quindi su questo articolo per chiarire … Ritengo che l’intellettuale e l’arista non scrivano, dipingano, ecc., mai per sé; ciò non vuol dire che lo facciano per gli altri. Direi che producono per esprimere, per creare un elemento della realtà prima inesistente. Possiamo dire che la loro creazione è un disvelare: qualcosa, che non si vedeva prima, ora può essere presentata alle coscienze e quindi esistere. In questo senso la crudeltà è oggetto e mezzo di questo processo. Può essere considerato uno degli approdi dell’artista e quindi qualcosa che egli può esprimere, ha senso che esprima; la crudeltà, almeno come riflessione o istanza, può far parte di un percorso di evoluzione dell’individuo e quindi rendere migliore la qualità delle relazioni e dell’informazione circolante tra le persone. Le battaglie di Sade contro il potere e l’ipocrisia mostrano sia il mezzo che il fine (la crudeltà appunto); stimolano alla ricerca e alla comprensione (letterale) di ogni parte di noi. Mostrano, ovviamente, anche una via per la gestione del ruolo dell’intellettuale.
© 2013 Dott.Franco Almacolle | C.F. LMCFNC59T24L483A | Privacy Policy | info@almacolle.it | by BMBDesign