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SET 30 2014
Problematiche inerenti all’allenamento mentale
Esempi di problematiche nell’utilizzo di tecnologie di allenamento mentale.   Premessa e obiettivi In questo breve articolo si descrivono, a mero titolo di esempio, alcune problematiche legate all’allenamento mentale in ambito sportivo. Non si danno soluzioni quindi, ma si aprono discussioni. L’obiettivo è chiarire che determinate metodologie non possono essere utilizzate efficacemente da chiunque, a prescindere dalle competenze specifiche possedute, se egli non è in grado di riferirsi ad un’esperienza personale (di atleta e allenatore) che, appunto, non può essere vicariata. A fronte di queste considerazioni tratteremo di due temi chiarendo alcuni aspetti della prassi, ma soprattutto cercando di “problematizzarle”.   Definizioni In questo testo, per allenamento mentale intendiamo quel complesso di tecnologie, quali la visualizzazione creativa (ideo-programmazione), l’elicitazione di stati, ancoraggi, ecc., che hanno come base la capacità del soggetto di accedere ad una condizione psicofisica caratterizzata da attività cerebrale α e, in quella “situazione”, di lavorare per apprendere, correggere e affinare gesti (tecnici) e comportamenti. La condizione α si raggiunge attraverso un rilassamento psicofisico specifico che ha, per l’atleta, tre funzioni: gli insegna la padronanza dei suoi vissuti (emotivi, mentali, fisici); favorisce in lui una condizione di rilassamento e lo accompagna “alla porta” delle altre tecniche, ognuna delle quali ha funzioni specifiche.   TEMA 1 – Tecnica di ideo-programmazione La tecnica di ideo-programmazione è una delle più utilizzate in ambito sportivo. Si tratta di “vivere” a livello soggettivo (mentale), in α, l’evento per cui ci si sta preparando, a livello tecnico e psico-emotivo. Vi sono dei casi in cui non solo non produce effetti positivi, ma ne produce di negativi.     Ad esempio se l’atleta soffre di disturbi ansiosi in relazione ad una specifica performance, l’ideo-programmazione può portare ad una situazione per cui l’atleta potrà subire degli attacchi di panico; infatti ripetere mentalmente un’esperienza “di pericolo” permette (paradossalmente) l’elaborazione di una strategia “via da …” da mettere in campo. Allora, se uno sciatore agonista deve prepararsi mentalmente a scendere la Streif in “libera” andrà incontro a difficoltà (maggiori) se non l’ha dominata (per quanto è possibile) nella realtà oggettiva. In effetti anche la tecnica di rilassamento non sempre funziona per alleviare la tensione; nel caso descritto precedentemente, anzi, si può rischiare di peggiorare le cose. Infatti, spesso si dimentica che la tecnica di rilassamento è innanzitutto una forma di meditazione e quindi amplifica gli stati psico-emotivi. Allora, se l’atleta è particolarmente teso, la questione si pone. Ricordiamo, inoltre, che una delle fasi del rilassamento riguarda la respirazione (profonda) e quindi si dovrebbe sempre considerare il fatto che “… più respiro più sento”. Per concludere, si fa presente che ogni disturbo o disagio di ordine psico-emotivo va considerate anche come una “soluzione tentata”; ovvero ha una sua funzione, in un certo senso, utile per il soggetto. Per comprendere l’embricarsi delle varie epifanie è necessario comprendere che ogni individuo non è un’unità, ma è composto di parti, a volte in conflitto tra loro; il loro compito è spesso quello di proteggere la persona (da se stessa) “suo malgrado” provocando sintomatologie bloccanti la cui origine non è sempre esplicita alla coscienza. Senza una negoziazione[1] che appiani o riduca quel conflitto, tutto quello che si fa per “sconfiggere” l’ansia e la paura le farà aumentare. Nel nostro esempio lo sciatore potrebbe avere un attacco di panico oppure sentirsi non in perfetto equilibrio (e quindi cadere appena partito, quando non ci sono rischi). Le sintomatologie possono essere le più varie e possono addirittura cronicizzarsi ed estendersi. Solo un intervento “integrato”, curato e fortemente personalizzato può garantire un buon risultato e l’assenza di controindicazioni.     Un altro problema legato all’ideo-programmazione riguarda la progettazione del contenuto dell’esercizio. Esistono dei temi: ad esempio l’apprendimento o la correzione di un gesto tecnico. Gli atleti, in relazione a questa attività, chiedono frequentemente se è meglio “vedersi agire” o fare il lavoro “in prima persona”. Innanzitutto, la correzione di un gesto può essere eseguita più appropriatamente attraverso altre tecnologie che marchino meglio possibile la differenza tra comportamento corretto e quello scorretto. Detto questo si può dire che ci sono diverse possibilità. Sullo schermo della mente posso anche vedere (e copiare) grazie ai neuroni a specchio, il movimento di qualcun altro, magari già visto in un filmato. Poi posso pensare di alternare, anche più volte nello stesso esercizio, percezione dall’esterno e dall’interno per meglio collegarle. Si tratta di un lavoro faticoso; quindi motivazione e convinzione del soggetto sono fondamentali. Ancora: il gesto può essere scomposto in segmenti ed è possibile lavorare su una parte cruciale e poi re-inserirla nel movimento completo. Molti poi “si dimenticano” di riportare la velocità, se la si è rallentata nel “film”, come peraltro è utile, al livello normale o anche più veloce. … Ho incontrato diversi atleti che avevano ideo-programmato la loro lentezza! Fondamentale, in ogni caso, ricordare che l’alternanza di lavoro al livello oggettivo e di lavoro mentale dà il massimo di risultato. Non sono d’accordo sul fatto che la tecnica di ideo – programmazione sia la più utile per l’elicitazione di stati in relazione ad un evento complesso come ad esempio una partita. Penso tuttavia che atleti che hanno acquisito familiarità con lo strumento la usino anche in una condizione α superficiale. Si racconta che Michael Jordan si immaginasse intere partite in termini di azioni opzionabili e forse non parlava con nessuno dei pregi e difetti del lavoro condotto in quel modo. Concluderei quindi che l’allenamento con l’ideo-programmazione deve diventare qualcosa di normale nella programmazione dell’attività agonistica, non tanto perché l’atleta cessi di viverla come una cosa strana quanto perché egli si deve dimenticare di averla fatto nel momento in cui l’evento sportivo ha inizio. Senza sceglierlo consciamente, infatti, alcuni atleti, ritornano al “film” anche nel bel mezzo dell’attività agonistica uscendo così dal “flusso” dell’evento. TEMA 2 – Induzione e ancoraggi di stato Una mattina avevo deciso di concedermi una nuotata ad un’ora decente. Solitamente andavo in piscina molto presto e poi andavo al lavoro. In macchina mi dicevo che allenarsi così era pesante, che l’odore del cloro alle sette di mattina non era il massimo; insomma, non era così divertente. Inoltre, da quando avevo re-iniziato a nuotare con un programma di allenamento, non riuscivo a ritrovarmi: mi sembrava che l’acqua fosse più densa e che io fossi più pesante; andavo in debito d’ossigeno facilmente e a momenti mi sembrava che il bordo vasca non arrivasse mai. Forse anche per quello avevo scelto di andarci in un altro orario … per rompere la routine. Avevo fatto poche vasche di riscaldamento e mi ero fermato a sistemarmi gli occhialini prima di ripartire per la fase dell’allenamento successiva. Stavo guardando fuori dalle vetrate; nuvoloni scuri si stavano muovendo lasciando squarci di cielo pulito. Da uno di questi squarci entrò un raggio di sole che si immerse dentro l’acqua proprio nella mia vasca. Guardai l’effetto da sott’acqua: la luce pareva quella sottomarina dei bassi fondali dei caraibi. Partii subito per andare in mezzo a quella luce dentro la quale tutto luccicava. Mi sentì pervaso di gioia e serenità; mi accorsi che espiravo con la bocca socchiusa la poca aria che prendevo inspirando (mi pareva bastasse). I movimenti si sciolsero e iniziai a “scivolare” …   In effetti anche la tecnica di ideo-programmazione viene utilizzata per l’induzione e l’ancoraggio di “stati”. In generale, viene usata con due chiavi: per ancorare la capacità di far fronte all’imprevisto e il finale positivo. Esistono altre tecniche per l’ancoraggio di stati positivi (di risorsa); ad esempio la tecnica denominata “cerchio d’oro” (o “di luce”); la pratica terapeutica ha lavorato molto anche sulla gestione degli stati negativi attraverso tecniche come il “cambiamento di storia” o la “dissociazione VK”. Come ho detto più sopra, il problema è di contenuti. Spesso si tende ad ancorare uno stato positivo che il soggetto elicita dal proprio passato. Si tratta di comprendere, tuttavia, se esso è adeguato alla situazione (specifica) di oggi e se il soggetto si è evoluto in un modo tale da poterla fare ancora del tutto sua oppure no. Nell’esempio in corsivo (mio) la chiave era la serenità e il piacere del contatto con la natura; nessuno dall’esterno (e nemmeno io stesso) avrebbe potuto immaginare che quella fosse la chiave; tuttavia, forse, con un’analisi ben condotta si sarebbe potuto mettere a fuoco certi aspetti decisivi inerenti alla mia condizione del periodo. Spesso si chiede all’atleta di avere “grinta” e frequentemente l’atleta pensa di doversi arrabbiare. Se l’atleta vuole elicitare uno stato che ha che fare con la rabbia, considero ovvio possa andar bene per un bobbista (né guidatore, né frenatore); molto meno per un palleggiatore di volley. Se ci si pensa l’essere aggressivi in difesa, ad esempio nel basket, è una formula che andrebbe specificata nel dettaglio; … non aggredire fisicamente, rimani lucido, accentua la capacità attentiva, scegli e opera l’atto giusto nel più breve tempo possibile. Ma lo spieghiamo così all’atleta? Quanti operatori ritengono di dover instaurare un dialogo per far sorgere flussi di consapevolezza e comunicazione tra sé, l’atleta e l’allenatore; flussi indispensabili per descrivere e realizzare un progetto dettagliato e personalizzato per l’atleta in questione e ancora di più per una squadra. Quanto si discute di credenze degli atleti e del matching tra il progetto di cui parlo poco sopra e la cultura sportiva e gli obiettivi della società?   Circa l’aggressività, e in generale lo sfruttamento dell’energia legata all’ira farei in ogni caso due osservazioni; la prima riguardalo “spirito guerriero”: gli Old Blacks portano fin dentro il campo la loro cultura guerriera con la Haka, ma quella cultura integra un senso di correttezza sportiva che fa sì che la loro aggressività non si trasformi in aggressione (ma il guerriero è iroso?). La seconda vorrei esprimerla attraverso una frase di Bruno Demichelis, guru dell’allenamento mentale con cui parlammo anni fa, io e alcuni miei colleghi, proprio in relazione al tema dell’aggressività. Bruno voleva sintetizzare il concetto per il quale determinati sentimenti, che lui definiva “caldi”, fornivano più energia (e si autoalimentavano) rispetto a quelli freddi (tra cui la rabbia). Per comprendere il senso della frase si deve tener presente che viene da un campione a livello mondiale di karate e, tra l’altro, “dimensionalmente” enorme (in forma, con bassissime percentuali di grasso, pesava 113 kg per 194 cm di altezza). La frase fu (tradotta dal dialetto veneziano): “Io non ho paura di nessuno, se devo fare a botte, tranne che di un uomo: un padre che difende i propri figli”.   Concluderei dicendo che il lavoro sull’allenamento mentale deve configurarsi, innanzitutto, come un intervento di “comunicazione integrata” con delle attività derivate sull’atleta (e sulla squadra) ricercando soprattutto l’organicità e la flessibilità come paradigmi per il successo.


[1] Con questo termine ci si riferisce ad una tecnica definita in ambito terapeutico: negoziazione complessa in sei fasi.
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