Scrivere poche righe su Picasso è, per quasi chiunque direi, un’enorme sciocchezza. Una parola sola per ogni variazione di stile, di soggetto, di tipologia o tendenza e si è costretti a scrivere un poema. Troppo ampia e varia la sua produzione; troppo numerosi i periodi e le suggestioni, nella vita e nell’arte.
Allora l’unica cosa che posso fare è raccontare “il mio Picasso” visto presso la nuova e splendida “permanente” dell’autore a Parigi.
Devo ammettere che non avevo capito Picasso prima di oggi. Non che ci fosse qualcosa che “bisogna capire” di Picasso che io non avessi capito e ora ho compreso. Diciamo che dell’opera dello spagnolo avevo (solo) una comprensione intellettuale e storico-artistica.
Oggi, invece, Picasso mi piace, mi dà delle emozioni e dei contenuti vivi e importanti per me, … prima non era così.
La doppia illuminazione l’ho avuta davanti a due opere: “Donna in poltrona” (si tratta della moglie Ol’ga, 1929) e la “Nuotatrice” (anche quest’opera data 1929). Poi tutti le altre tele hanno preso senso; ma quelle citate sono state le determinanti.
La prima ritrae la moglie Ol’ga, una ballerina che Picasso aveva amato molto ma che, nel momento in cui la ritrae in quel quadro, non godeva più dei suoi favori. Il quadro è perfino inquietante: le membra abbandonate sembrano informi e flaccide; il volto, inespressivo è mostruoso: solo i denti risaltano in una bocca cavallina, … più che altro un antro. Il sesso e le altre parti intime del corpo “segnalate” a caso.
Si capisce che per questa donna il pittore prova, in quel momento, repulsione e una forma di odio irrazionale; si tratta di un sentimento che alcuni conoscono molto bene: coloro i quali vivono, più o meno forzatamente, con una persona che detestano, che non amano più, di cui sono in grado di vedere solo i difetti perché ormai “si vedono” solo quelli (magari è la realtà). E serve “stomaco” o una buona dose di falsa coscienza per rimanere, se ci si riesce, dove si è. O lo si fa per “necessità” …
La seconda è una nuotatrice. Colpisce il piede fuori dall’acqua (curiosamente rifatto, … si vede il “pentimento”); colpisce perché pare che in quel piede così “grezzo” vi sia tutta la poesia e la sensualità di un piede esteso e flessuoso, mosso in quella posizione per pinneggiare nuotando. E così in ogni altra “parte” del corpo.
In entrambe le opere è come se Picasso riuscisse a cogliere, in ogni parte di realtà, un pezzo del suo senso. Ricomponendo sincreticamente i pezzi, allora, si ha il senso complessivo. Ma, in quest’ultimo “tutto” le parti restano irriducibili, come i diversi sentimenti, nei diversi livelli, che ogni persona prova coinvolgendosi nella realtà.
Dopo questa riflessione, considero il cubismo di Picasso prima di tutto un cubismo del senso: mostrare, composti, tutti gli aspetti (i lati, le facce, le parti) di una scena ritratta riuscendo a trasmettere la composizione dei vissuti suscitati da ogni “pezzo”.
La molteplicità dei vissuti trasmessi comporta una particolare ricchezza delle opere. C’è la possibilità di non trattare il sentimento o l’emozione generale, dovendola per questo descrivere attraverso un’astrazione, ma di passare ogni “moto”: dell’anima, del cuore, dei visceri e giù giù fino all’estremo “basso”. Come dicevamo, tutto assieme.
In questo modo Picasso raggiunge e supera l’arte surrealista: non più un sentimento ma il coacervo dei sentimenti anche irrazionali, alti e bassi, che ogni persona in contatto con se stessa vive, riconosce e si ritrova a gestire.
Nel corso del viaggio attraverso i quadri di Picasso, si incontrano tutta la varietà riverberante e la ricchezza delle emozioni e dei vissuti di tutta una complessa vita vissuta.
Credo che questa sia una novità inusitata nell’arte; e la frase pronunciata dall’artista: “A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino.” Assume un particolare significato.
In effetti questo sincretismo ricorda il carattere dei resoconti di alcune ricostruzioni; quelle che i fanciulli, interrogati dallo psicologo dell’età evolutiva Jean Piaget, fornivano circa i rapporti causa – effetto di alcuni eventi della realtà; ad esempio in relazione al funzionamento della bicicletta. Si tratta di descrizioni, in certe fasi dello sviluppo, approssimative, ma cariche di forza intuitiva e ricche di fascino poiché si capisce, leggendole, come l’attenzione dei ragazzini era stata attratta da alcuni aspetti o fatti che poi, ricomposti arbitrariamente e con enorme energia creativa, fornivano una “versione” suggestiva della realtà.
E in effetti questo viaggio nella suggestione e nelle emozioni è, a mio avviso, il lascito e l’insegnamento di Picasso. La realtà oggettiva è certo secondaria. A proposito di viaggi e di diversità l’ultima citazione che riportiamo assomiglia in modo singolare alla frase più importante del Musil de
L’uomo senza qualità (“Dio fa il mondo e intanto pensa che potrebbe benissimo farlo diverso.”)
“E Dio in realtà non è che un altro artista. Egli ha inventato la giraffa, l’elefante e il gatto. Non ha un vero stile: non fa altro che provare cose diverse. Dio, quell’altro artigiano.” (Pablo Picasso).