Ho compreso solo nel tempo il motivo per cui la produzione di Basquiat (Jean-Michel, New York, 22 dicembre 1960 – New York, 12 agosto 1988, quindi più giovane di me di meno di un anno), mi piace così tanto. Uso il termine produzione perché non ritengo sia adeguato, in questo caso, parlare di “opera” o di lavoro.
Basquiat rappresenta la fine dell’arte così come si è voluto intenderla: un ambito di creatività alto, intriso di spirito apollineo, superiore alle altre attività umane.
Non c’è più tecnica nel lavoro di questo artista e questo suo malgrado; figure e parole sono messe su una superficie piana (muri, tele, cartoline, fogli) senza alcuna preoccupazione estetica. Da qui l’immediatezza dell’informazione che colpisce il fruitore e il fascino di quel disegno infantile che pure veicola messaggi “duri”, di profonda sofferenza e solitudine.
Non c’è più il contenuto: ciò che si riproduce è casuale e comunque è tutto interno, endogeno; ma senza bisogno di atmosfere simboliste o espressioniste. Soprattutto senza alcune scelta apparente. Le influenze etniche sono tracce oniriche o elementi emergenti dall’inconscio che arrivano al pennello, alla matita, ecc.
L’uso di parole o frasi rende i suoi lavori spurî, non sono “dipinti”, forse graffiti, tracce umane ….
Ma non c’è nemmeno l’Opera! Basquiat dipinge assieme ad altri, si mescola, senza gelosia. Non possiede l’orgoglio dell’artista. Quando i galleristi glielo chiedono dipinge centinaia di quadri per soldi e i critici tutori dell’arte e dell’artisticità (perché quella sì vale, … vale tanto denaro) lo criticano. La sua prima esposizione in Italia è recensita in maniera pesantemente negativa.
Ma quello che non si è capito di Basquiat è proprio questo; è qui che risiede la sua straordinaria importanza! Jean-Michel dice “basta”! Basta con l’arte, si torna ai graffiti della caverna, si torna alla Grotta di Lascaux, a quei segni, non tracciati per produrre un’opera d’arte, ma solo per testimoniare il passaggio di un’umanità disorientata, forse perduta, interessata ai propri vissuti primari. Non c’è, come si diceva, separazione tra apollineo e dionisiaco, perché l’unico anelito è verso la sopravvivenza. Iconoclastia non voluta rispetto all’arte, ambito che Jean-Michel non ha mai concepito come conchiuso.
E non dovrebbe scandalizzare (però chi si vuole scandalizzare lo faccia con impegno!) che per Basquiat la sopravvivenza volesse dire vestire Armani.
Per questo Warhol fu scioccato quando lo incontrò: Basquiat aveva completato “dall’inizio” la rivoluzione che lui, Andy, artista e intellettuale, aveva iniziato e che, in quanto tale, non avrebbe mai potuto terminare.
Quando Warhol critica il disegno di una banana, Jean- Michel la corregge subito in modo particolarmente (ma non volutamente) visibile, (“… prima era in un modo, adesso la facciamo diversa, ma senza occultare la modifica, che problema c’è, …” avrebbe potuto dire). Ecco, questo disinteresse per la compiutezza, questo snobbare l’arte è la cifra di questo neo artista, più consapevole e quindi testimone eccellente di come l’arte finisce e di dove inizia qualcos’altro: espressione urgente, disagio, urlo, solitudine, disperazione, insomma quello che tutti noi iniziamo a percepire ogni giorno.
Disagio e disperazione dai quali ora è libero come sempre è stata libera la sua “arte”.